britishFlag

Un poco di me

Non ho mai scritto nulla che mi riguardasse personalmente e non lo intendo fare più. Mi ci dedico ora, forse e sopratutto per me stessa, per trovare la bandolo della mia vita, oltre che come giustificazione del mio lavoro nel caso improbabilissimo che qualcuno fosse interessato a conoscerlo.

Sono nata non voluta in una famiglia ragionevolmente benestante. Il mio primo ricordo è di un giorno che avevo mal di pancia. Volevo capire perché, così sono andata in giardino a fare la cacca. Brulicava di vermi biancastri grossi e lunghi. Mi chiesi se fosse il caso di dirlo alla mamma, poi decisi di no. Vedrai che se ne approfittano per ammazzarti, mi dissi. Dopo un paio di giorni i vermi lunghi e grossi scomparvero, sostituiti da moltissimi piccoli e sottili. Poi scomparvero anche quelli insieme al mal di pancia.
Avevo  tre anni.
Rivedo vestitini da estate di cotone a fiorellini di tutti i colori con l'arricciatura a nido d'ape, e le mutandine della stessa stoffa. Mio zio Renzo ne confrontava la lunghezza con quella della sua giacca. I miei erano più corti, quindi a quei tempi un pò peccaminosi. Ma mia mamma era americana e io me ne infischiavo.
Qualche anno dopo arrivò mio fratello Filippo, che era bellissimo. Tutti se lo mangiavano di baci e coccole, mentre me non mi aveva mai nemmeno accarezzata nessuno.
"Perché a lui vuoi bene e a me no?" chiesi a mia mamma.
"Perché lui è figlio del mio amore e tu no." rispose.
Andai nella mia stanza e sfogai il mio senso di ingiustizia disegnando il fatto sul muro, il che mi valse le solite urla.
Un altro ricordo è quello delle scarpine della prima comunione. Avevo poco più sette anni, e un giorno per strada incontrai un'amica di mia mamma. Era la moglie di un notaio di grido e aveva tre bellissime, elegantissime e amatissime figlie più o meno della mia età.
"Cos'hai ai piedi?" chiese.
Me li guardai e li vidi completamente sformati dentro alle scarpette della prima comunione, non più bianche e ormai vecchie di oltre un anno, indossando le quali avevo probabilmente passato l'inverno, neve pioggia e tutto il resto. Non me ne ero mai accorta, non ci avevo mai badato, non mi interessava. Ma i piedi, non potendo crescere per il lungo, si erano sformati per il largo e da allora ho sempre camminato male, e le conseguenze le porto tuttora.
Mia madre era una grande campionessa di sci. Era arrivata solo quarta alle Olimpiadi di Cortina perché era caduta, ma lei avrebbe voluto vincerle. Quello le causò un trauma dal quale non si riprese mai più. Passò il resto della vita ritentando di conquistare quel podio, anche se ormai quelle Olimpiadi erano passate da tempo, e più gli anni correvano via più si allontanava la sua meta. Comunque occuparsi di me non poteva perché aveva le gare e gli allenamenti, così mi rifilò a sua mamma, che di voglia ne aveva ancora meno di lei.
Trascorsi l'infanzia nella sua villa quattrocentesca a Moià, dove l'unico imperativo categorico era che me ne stessi fuori dalle scatole, il che a me andava benissimo. Passavo le giornate coi figli dei mezzadri a pascolare le mucche, a raccogliere la frutta dagli alberi, a interpretare le forme delle nuvole sdraiata sull'erba insieme a loro. Il pomeriggio la nonna faceva la siesta, e io ne approfittavo per sgattaiolare sull'altana dove tenevano il fieno. Un giorno in un angolo scoprii un baule zeppo di scatole di gioielli vuote. Io le aprivo per vedere se in qualcuna per caso non ci avessero dimenticato qualcosa. Ahimè invano. Stampati sul velluto o sulla seta all'interno erano rimasti solo dei nomi: Cartier, La Cloche, Tiffany.... Quando molti anni dopo uscì il film Breakfast at Tiffany's con Audrey Hepburn, il nome di quel gioielliere era quello di un vecchio amico.
Sparpagliati sul pavimento fra mucchi di fieno c'erano anche altri bauli semiaperti, da dove pendevano alla rinfusa vecchi vestiti elegantissimi, roba ancora dall'America ma fuori moda, improbabili per una vita di campagna. Io rubai una lunga gonna di raso nera che mi proteggeva le gambe dalle mosche. Rubai anche un cappellaccio di feltro nero con una rosa nera di seta sotto l'ampia tesa e me lo cacciai in testa senza togliermelo più. Da quel giorno fui, anche se era un segreto che non ho mai rivelato a nessuno a nessuno, il Corsaro Nero. Probabilmente sfinita dalla noia insopportabile di doversi occupare di me, alla nonna non rimasero le forze per fustigarmi con la scoria, la frusta per i buoi che usava generalmente per insegnarmi le buone maniere. Questa volta, visto che le stavo molto cautamente alla larga, la feci franca.
Suo marito, il nonno Pier Carlo Lange, di cui sono infinitamente grata mi abbiano dato il nome, aveva fatto una grande fortuna in America. Ci era arrivato senza un centesimo, perché i soldi della famiglia se li era giocati a poker nel porto di Genova prima di salpare, e li aveva persi. L'unica cosa che sapeva fare, oltre al canottaggio di cui era stato un paio di volte campione d'Italia a Torino dov'era nato, era andare a cavallo, essendo stato ufficiale nel Savoia Cavalleria insieme al Senatore Agnelli fondatore della Fiat. Partì subito per la California a fare il cowboy.  Lì  condivideva la stanza con un immigrato polinesiano, povero come lui. Una mattina lo trovò appeso alla finestra, impiccato. Come Picasso che, traumatizzato da un'esperienza analoga con Casagemas iniziò a dipingere in blu, anche il nonno decise di cambiar vita. Lasciò la California per la East Coast, dove andò a lavorare alla catena di montaggio da Ford. Forse l'interesse per le automobili se lo portava dentro dai tempi del sevizio militare, avendone forse parlato con Agnelli. Quando ne capì il funzionamento, riuscì a farsi prestare dei soldi da qualche banca e si mise in proprio. Assemblava modelli di marche americane, molte delle quali oggi scomparse, con licenza per i due continenti dall'Alaska alla Terra del Fuoco. Passò quindi a quelle europee come Renault e Fiat. Quando ne seppe abbastanza fondò un'impresa, per produrre le proprie, la Lange Motor Company, prima a Città del Messico, poi all'Havana di Cuba. Gareggiava al volante dei suoi modelli da corsa. Nell'entrata dell’appartamento di mia zia Lumo a Milano c'era una gigantesca coppa d'argento col suo nome e quello della sua azienda incisi sopra, vinta sul circuito di Indianapolis  nel 1916. Poi dal Messico si trasferì all'Havana di Cuba dove viveva in una ‘finca’ con moglie e quattro figlie, di cui mia madre era la maggiore. Custodisco le copie dei documenti che attestano il suo possesso di un pozzo di petrolio, di una miniera di rame a Cuba, e del progetto di una ferrovia per traversare il Messico dall'Atlantico al Pacifico, antecedente e forse alternativo al taglio dell'istmo di Panama realizzato pochi anni dopo dall'ingegniere trentino Luigi Negrelli. Poi si ammalò, e la nonna per farlo curare lo riportò in Italia insieme alle figlie. E venne la guerra e di tutto quello che c'era stato in America rimasero soltanto dei bauli: quello con le scatole di gioielli vuote e quelli coi vestiti demodé.
Le vicende americane influenzarono irreparabilmente il carattere di mia madre che, essendo stata molto ricca da piccola, non seppe mai più adattarsi alle dimensioni delle persone normali e rimase per sempre una disadattata. In realtà non è che fosse povera, perché sua madre era ricca di suo, ma di certo l'era degli sfarzi americani era finita. L'eco lontana del paradiso perduto fece da sfondo anche alla mia infanzia.
Nel periodo delle vacche obese avevano comperato anche la Moretta, una villa settecentesca su una collina sopra Pergine, che comprendeva le campagne fino al fondovalle e i boschi su fino al Passo del Cimirlo. Ci andavamo d'estate. Anche lì trascorrevo le giornate a pascolare le mucche coi figli dei contadini. Filosofeggiavamo, coglievamo la frutta dagli alberi e contemplavamo le nuvole. Approfittavo della siesta della nonna per sgattaiolare nella proibitissima torretta. Vi si saliva al buio sui gradini tarlati di una scaletta che finiva davanti a una pesante porticina chiusa. Rovistando a tentoni nel muro ero riuscita a scovare una cavità dove trovai la chiave. Mi si aprì davanti una stanzetta incantata di circa tre metri per tre. Conteneva un lavandino, un gabinetto e un bidet di porcellana bianca su cui una mano divina aveva dipinto farfalle, fiori, pappagalli dai colori vivacissimi. Aprivo la finestra che dava sulla valle e un fitto bosco di castagni, che frusciavano accarezzati dal vento avvolgendomi nel loro profumo. Quando pioveva l'aria m'inebriava come un sortilegio. Trascorrevo i pomeriggi seduta sul water a godere con ogni cellula del corpo. Quel luogo è rimasto per me la quintessenza del lusso, a volte dipingendo ho tentato di regalare a me stessa quelle sensazioni.
Molti anni dopo in un documentario sui Bagration, la famiglia che regnò per quasi due millenni sul Caucaso, in una villa dei loro discendenti francesi a Fontainebleau in Francia, con un grido di sorpresa ho rivisto il gabinetto della torretta di Moretta, appoggiato contro il muro della biblioteca come un oggetto prezioso.
Un altro ricordo della Moretta, che ho cercato di rievocare dipingendole, sono le lunghe strisce orizzontali di vetri multicolori poste verticalmente fra i gradini dello scalone che portava alle camere da letto. Sotto c'era un salone dove la famiglia si riuniva a chiacchierare dopo cena. Dopo un po' mi mandavano a dormire senza accendere l'interruttore di sopra. Salivo nel buio, i piedi illuminati da magiche ghirlande di fiori, e mi sembrava di volare in paradiso.
Poi la guerra finì. L'estate del 45 andammo al mare a Tre Porti, vicino a Venezia: mia madre, mio fratello di due anni e io.
Si partiva dal paesino su una bicicletta che sprofondava nella sabbia. Nell'ultimo tratto le ruote si incagliavano e bisognava scendere e spingere. Sull'arenile infinito non si muoveva essere vivente, solo il mare rotolava pigramente sulla battigia piccole onde dalla cresta bianca. Mia madre come al solito si spogliò nuda. Erano i tempi in cui mostrare le ginocchia era considerato peccato mortale. Dopo un po' spuntò una barca a vela e mia madre ci salì sopra insieme a mio fratello. Si allontanarono e scomparvero, lasciandomi per il resto della giornata da sola sotto il sole su quella spiaggia deserta senza mangiare, senza bere, senza uno straccio per proteggermi dal sole. Rimasi lì seduta a studiare le forme e i colori delle magnifiche conchiglie ammucchiate intorno. La sera la barca ricomparve, mia madre scese con mio fratello in braccio e tornammo in paese spingendo faticosamente la bici nella sabbia. La storia si ripetè per qualche giorno, poi la barca non si vide più e mia madre rimase con noi a guardare il mare. Lentamente anche quella vacanza finì.
Quell'autunno mi misero in collegio dalle Marcelline a Bolzano. Le suore erano super adorabili. Mi davano da mangiare, da dormire, da vestire, stavo al caldo e quando studiavo mi dicevano brava. Portavamo un impeccabile grembiulino bianco che veniva cambiato ogni giorno, con un gran fiocco di seta scozzese al collo. Quell’uniforme mi piaceva molto e la portavo con grande orgoglio. L’Andreina Ardizzone e io facevamo a gara per primeggiare e scrivere articoletti sul giornalino di classe. Io facevo anche i disegni con i castagni della Moretta sempre sullo sfondo. Ero molto felice.
Forse proprio per quello dopo la terza media mi tirarono fuori e mi misero al liceo Prati di Trento
Mio padre si era trasferito sopra la sua fabbrica e non si vedeva più. Mia madre non c'era. Scompariva per mesi per chissà dove chissà con chi. Mio fratello era dai Filippin a Possagno. Io ero sempre sola, senza mangiare, senza riscaldamento. La nostra casa, un bell'esemplare di architettura moderna, sorgeva in mezzo ai campi ed essendo l'unica della città con la piscina, durante la guerra era stata requisita prima dal comando militare tedesco, poi da quello americano. Quando se ne andarono non era rimasta una sola porta o una finestra che chiudesse. Di giorno girava intorno alla recinto del giardino un ragazzo mongoloide con il pisello in mano. Gli gridavo:
“Va via!, Va via!”
Ma lui non capiva. Io non sapevo come spiegargli che il suo comportamento mi faceva molta paura. Di notte ero terrorizzata. Per tre anni non riuscii a dormire.
I primi mesi al Prati indossavo con grande fierezza il grembiule bianco del collegio col fiocco di seta scozzese. Ero l'unica della scuola col grembiule. Visto che nessuno li lavava o tantomeno stirava, dopo un mese o due il fiocco si afflosciò e il grembiule fu sempre più sporco, finché divennero ributtanti e li smisi. Anche la divisa del collegio fu presto lacera e lercia. Il mio guardaroba invernale consisteva ormai in una gonna di gabardine nera lucida e lisa, un maglione smesso di mia madre, il cappotto grigio di mio padre, rivoltato, un paio di calzetti a righe colorate lavorati a maglia con le lane avanzate, un paio di scarpe marrone con la suola di para. D'estate i vestiti me li facevo da me con la macchina da cucire ricuperando qualche capo scartato. Li lavavo e li stiravo io, perché mia madre non lo avrebbe mai fatto: lei era una signora. Risultato: ero sporca, malvestita, ripugnante. Il Prati era la scuola era la più prestigiosa della città. Le mie compagne erano tutte carinissime ed elegantissime e io mi vergognavo da morire. Nessuno avrebbe sprecato le sue feci per tirarmele addosso. Crimine numero uno: facevo schifo. Crimine numero due: ero ‘ricca'. Benché, come diceva il mio capo di Ravenna, la categoria dei ricchi senza soldi non esista.

Una volta che l'imbarazzo per il mio aspetto prevalse sul mio coraggio di affrontarlo, marinai. Invece di attraversare il ponte sul Fersina per andare al Prati girai a destra verso il parco di Gocciadoro. Era novembre. Cadeva nevischio misto a pioggia, il terreno era fanghiglia. Non essendovi panchine né alcun tipo di riparo, mi arrampicai su un pino, mi aprii l'ombrello sopra la testa e trascorsi la mattinata leggendo un trattato sulle api.
La sera verso l'ora di cena stranamente comparve mio padre, che normalmente non si vedeva mai. Io ero già in camicia da notte.
"Sei andata a scuola oggi?"
"Si."
“Balle! Sei una bugiarda! Puttana! Troia!"
E giù botte. Io lo sapevo bene che avevo marinato, e che mi spettavano, così me ne stetti per un po' in piedi diritta davanti a lui guardandolo negli occhi e lo lasciai fare. Quando però cominciò a darmele sui seni e fra le gambe mi parve che quelle zone del mio corpo nulla avessero a che vedere col fatto che non ero andata a scuola, quindi mi girai e scappai fuori di casa. Nel frattempo la pioggia si era trasformata in neve, che si era accumulata sul terreno. Trascorsi la notte seduta sopra un mucchietto di terra che usciva dalla neve sotto le vigne, seminuda. Alle prime luci dell'alba notai che mia madre (era stata lei a denunciarmi) non aveva chiuso bene la porta, così sgattaiolai di nascosto in camera mia.
Visto che la mamma non mi lasciava soldi e mio padre abitava altrove, per mangiare andavo a scrocco dalla Grazia, la mia guida, la mia maestra e compagna di classe. La Grazia era poverissima, suo papà era stato garzone di un negozio di alimentari, poi era finito a letto malato. Non so di che male soffrisse, so solo che non era in grado di muoversi. Campavano con la sua magra pensione, quindi condividere il loro di pane con me fu un atto eroico. A volte mio padre consegnava a mia madre qualche soldo per me, ma lei se li teneva. Quando li dava direttamente a me ci compravamo 10 sigarette Nazionali e un barattolo di senape. Si trattava di una novità appena arrivata dall'America. Sull'etichetta c'era scritto MUSTARD e di sapore era molto diversa dalla Orco che mettevamo noi sui würstel. Sapeva di Californie lontane e di vittoria.
"Con cosa la mangiavate?" mi chiese mia figlia.
"Col cucchiaio o col cucchiaino. A volte col dito."" risposi.
"Ma no: INSIEME a cosa?"
"Insieme a nulla."
Per noi era una festino.
Una volta una sua zia contadina portò un cestello di piselli e invitarono anche me. Risi e bisi. Fu un banchetto.
Per Pasqua mi regalò un camicione da chierichetto rubato in chissà quale chiesa, o semplicemente gettato per via dei buchi. Aveva un pizzo altissimo e mi ci feci la sottoveste più elegante della città.
La Grazia era di un'intelligenza mostruosa e insieme marinavamo la scuola, perché ci sembrava di buttar via tempo. Anche se in fondo non si trattava proprio di marinare perché il professore, non appena entrava in classe, mentre appoggiava il registro sulla cattedra diceva:
"Graffer fuori dalla porta."
Dopo svariate mattinate trascorse in corridoio mi fu chiaro che la mia presenza non era gradita quindi, che ci fossi o meno non faceva una gran differenza. La Grazia smise di frequentare per farmi compagnia. Studiavamo a modo nostro. La biblioteca di casa mia era piena di libri: romanzi classici, biografie, tomi di storia, trattati di economia, viaggi, poesie. Li leggevamo a voce alta, o meglio li leggeva lei, e mi insegnava. Ascolta il suono di questa parola... ne hai trovato la radice greca? latina? Ripeti a voce alta. Senti come si collega a quella dopo? Ne percepisci il ritmo? Il suono? Il vocabolo è appropriato? Lo potresti migliorare? L'aggettivo è necessario? Qual'è il senso della frase? Potresti riscriverla meglio? Come? Cosa t'insegna questa storia?
Poi mi puntava il dito sul naso e diceva: "Come fai a essere così stupida?"
Passavamo le giornate sedute sul suo letto macchiato, senza materasso né lenzuola o coperte. Le infilavo i piedi sotto il sedere perché faceva freddo. Ma non freddissimo, perché sotto il suo appartamento c'era una birreria molto frequentata, e un po' di calore saliva attraverso il pavimento. Fumavamo Nazionali, un tiro ciascuna, finché per non bruciarsi le dita bisognava infilare la cicca in uno spillo. Parlavamo dei nostri sogni, e i nostri sogni diventavano realtà, ed eravamo principesse vestite di sete cangianti tempestate di gemme, danzavamo in saloni tappezzati di specchi dalle cornici d'oro, dimoravamo in castelli turriti abbarbicati su monti inaccessibili, eravamo contese da guerrieri eroici e avventurosi, e a volte ce li contendevamo. La sua mamma ci portava un caffè dolcissimo. Eravamo felici.
La sola nuvola in quel cielo turchino erano i geloni, che mi gonfiavano le dita delle mani e dei piedi fino a spaccarle. Porto ancora le cicatrici.
Allora la casa di mia madre era circondata dalla campagna. Non mi vedeva nessuno, non lo sapeva nessuno, non davo fastidio a nessuno e nessuno lo dava a me. Dormivo con la porta-finestra spalancata, tanto, non essendoci riscaldamento non è che la temperatura scendesse. Anzi. Quando nevicava trascinavo il letto sulla terrazza che circondava per tre quarti la casa. Mi rannicchiavo al calduccio sotto due o tre piumini a godermi le punture lievi dei fiocchi di cristallo che mi si scioglievano sulla faccia. La mattina mi svegliavo felice sotto 10 o 20 centimetri di neve. Se era sereno dal letto vedevo fino in fondo alla valle, gli archi neri del viadotto ferroviario si stagliavano contro una luminosità fioca. Nel silenzio ogni tanto passava sferragliando la littorina per Pergine. In primavera la luna era un galeone di pirati che veleggiava possente e sereno fra i grappoli del glicine attorcigliato alla ringhiera della terrazza. Mi mandava criptati messaggi d'amore giocherellando coi propri riflessi sull'acqua della piscina.

La seconda lettera d'amore me la fece consegnare a mano il Cesare da sua sorella alle Marcelline a Milano. Non era stato possibile inviarla per posta perché le suore la leggevano prima di consegnarcela e qualunque cosa avesse a che fare coi maschi era proibita. Erano parole incantate.
Lo avevo conosciuto l'estate prima in Brenta. Stavano girando un documentario su una salita del Campanil Basso. Protagonisti alcuni dei più quotati alpinisti trentini, fra cui naturalmente mia madre. Visto che non aveva trovato nessuno a cui sbolognarmi, della troupe facevo parte anch'io, che mai in vita avevo sfiorato una roccia con un dito. Ero reduce dall'ospedale, dove ero stata ricoverata in quanto mi ero rotta la testa contro uno scoglio in un tuffo sul lago di Garda. Nascondevo il cranio rasato sotto un foulard e indossavo pantaloni lunghi di cotonina celeste, che al primo contatto coi sassi si erano squarciati. In mancanza di meglio erano stati rattoppati con la striscia verde della bandiera italiana che fino a poco prima aveva sventolato patriotticamente sul Rifugio Pedrotti.
Mi legarono al Cesare. Nella cordata davanti alla nostra c'era il Rolly Marchi, le sue pedule costantemente davanti al naso. Risento ancora la sua voce stentorea gridare alle Dolomiti la sua ultima iniziativa imprenditoriale:
"Scarpe Rolly tengono tutto!" mentre un'eco sempre più fioca rimbalzava la pubblicità fra le cime.
Arrivati in vetta il tempo cambiò e bisognava scendere in fretta. In corda doppia. Io non avevo mai sentito quell'espressione e non avevo la più pallida idea di che cosa si trattasse.
"Buttati fuori e lasciati andare." mi esortò mia madre.
Eh no. Va bene che sono stupida, ma buttati fuori e lasciati andare tu. Sotto c'erano svariate centinaia di metri di vuoto. Mi calarono giù di peso, un tiro alla volta. Sul libretto della cima di quegli anni c'è il mio nome, la più giovane a salire sul Campanil Basso, complimenti Piera. Per fortuna non è rimasta traccia di come ci sono arrivata, né di come ci sono scesa.

Il Cesare lo ritrovai in Bondone in cima al Montesel, durante le vacanze di Natale. Non sapevo sciare, ma mia mamma era una campionessa e mio padre il padrone degli impianti di risalita. Tutti mi prendevano in giro, così mi toccava imparare.
"Cosa fai qui?" mi chiese.
"Imparo a sciare."
"Allora seguimi."
e si buttò giù a capofitto, parallelo al tracciato quasi verticale dello slittone. Lo seguii, per esplodere in volo poco dopo e ricadere nella neve fresca di testa, in una tombola che mi risucchiò fuori dagli scarponi. Cerca gli scarponi, cerca gli sci, rimettiteli, rialzati, riparti, ricadi, rivestiti, riparti, risali sullo slittone, riscendi. A mezzogiorno eravamo nella cucina del Tita a scroccare un piatto di minestrone. Quello del Tita era il Rifugio proletario, quello perbene apparteneva a mia nonna e io abitavo lì, e lì avrei dovuto andare a mangiare, ma facevo del mio meglio per starci il più alla larga possibile. La cucina del Tita era calda e accogliente, sulla fornasèla borbottavano pentoloni fumanti e io mi ci scioglievo dai capelli la neve che mi avvolgeva la testa come un turbante. Col Cesare ci sedevamo in un angolino e parlavamo. Veniva da una famiglia di attori e aveva tentato quella carriera ma, a differenza dei suoi fratelli, non aveva avuto successo. Aveva fatto il maggiordomo da un signore romano ma quello gli aveva messo le mani addosso e lui era scappato. Per vivere aveva provato di tutto, aveva perfino disinnescato bombe inesplose residuato di guerra. Ma ormai aveva deciso: voleva arrampicare, diventare il più grande di tutti. Ci avrebbe impegnato tutto il suo tempo, tutte le sue forze. Per raggiungere quella meta sapeva che poteva morire, ma non aveva paura.
Presto la notizia della mia evasione dal Tita col Cesare arrivò alle orecchie delia nonna.
"Vai a letto con un avventuriero! Sei la vergogna della famiglia! Puttana!"
e giù con la solita scenata. Era così ingiusta, così offensiva, così maligna, così tremenda, così insopportabile. Questa volta mi aveva proprio schiacciata. Volevo morire. Andai a sedermi sulla neve in cima al campetto dei principianti. Era un magnifico tappeto di diamanti. Aspettavo che piano piano il freddo si impossessasse di me, mi cristallizzasse il sangue nelle vene, indurisse il mio corpo, mi portasse via. Il velluto viola della sera si spegneva nel blu della notte e sotto i miei piedi la vallata si apriva come uno scrigno di tesori. Le luci delle attività umane barluccicavano, rispecchiando le stelle. Quante. Che meraviglia. C'era la Cintura di Orione, e le Pleiadi, c'era Venere, c'era l'Orsa Maggiore... guardala là, è la più brillante di tutte. Ha davvero la forma di un carro... ma no, ha la forma di una carrozzina... sì, di un passeggino... Osservai meglio e dentro quel passeggino ci vidi dei bimbi. Ridevano, giocavano fra di loro, mi chiamavano: mamma, mamma! Erano i miei figli, che aspettavano di scendere sulla terra. E avvolgermi con le loro braccine, e darmi tanti bacetti bagnati di latte, e volermi bene.
Mi alzai e tornai dalla nonna. Quante volte da quella notte quei bambinetti mi hanno dato coraggio ancor prima di scendere dal Grande Carro! Quando finalmente sono arrivati ho dato a ognuno di loro il nome di una stella.
Poi il Cesare è diventato famoso. Dalla Patagonia dove aveva scalato per primo il Cerro Torre spedì a mia nonna una cartolina con scritto: Tanti saluti da un povero avventuriero. Io sono partita per le mie peregrinazioni, e le nostre strade si sono separate. Ma gli ho sempre voluto bene, e l'ho difeso anche contro Messner, perché io lo so quanto è stato grande.

La prima lettera d'amore me la mandò il mio ciliegio.
Quando ero alle Marcelline di Bolzano passavo le vacanze d'estate a casa di mia mamma in città. Quando c'era giocava a tennis o prendeva il sole nuda come un verme a bordo della piscina, mentre ombre oscure si aggiravano al di là della siepe. Io trascorrevo le giornate sdraiata su un ramo del ciliegio a leggere. Lassù mi sentivo protetta e nessuno riusciva a prendermi a sberle o urlarmi. Presto la gratitudine si trasformò in amore, e io davvero mi innamorai di lui. Sulla corteccia avevo scoperto un ingrossamento che sembrava una bocca, e mi misi a baciarla appassionatamente.Mi sentivo ricambiata e questa sensazione aprì dentro di me uno scrigno di sogni.
In realtà i ciliegi erano due, ma per salire su quello grande bisognava fare un salto, con una mano afferrare delle foglie, tirarle a me, allungare l'altra mano più in alto, sollevare le gambe con un colpo di reni, stringere con le dita dei piedi il ramo un po' più in alto e issarmi su con un colpo di reni come una scimmia. Fattibile ma complicato. Su quello piccolo invece ci si arrivava facilmente dalla rete metallica della recinzione.
Quando la mamma era via calavo a terra. Facevo disegnetti. Una grande pittura feci sul soffitto della sua stanza da letto. Non disponendo di meglio usai un pezzettino di legno carbonizzato, il fumo di una candela e mezza boccetta di inchiostro blu. Tracciai degli occhi che avevano lo scopo di fissarla con sguardi accusatori. Non so se ci riuscii, però lei non fece mai alcun commento.
Spesso venivano il Guido e il Claudio (alle bambine non era permesso frequentarmi) e nuotavamo in piscina, ci lanciavamo in tuffi folli dalla terrazza (il campione era mio fratello), ci sfidavamo a duello con le ortiche raccolte in fondo al giardino, giocavamo a pulci su una pelle rivoltata di pecora facendole saltare da tutte le parti, tentavamo di prenderci saltando come bertucce di ramo in ramo sul ciliegio piccolo. A volte ero Sandokan, e in piedi sul ponte del mio praho, cioè sul ramo più alto, gridavo la mia sfida alle onde e alle tempeste. Avevamo la pelle era color miele.
In quarta ginnasio al Prati fui bocciata e mi rimisero alle Marcelline, questa volta a Milano.
A volte quando si andava a passeggio in fila per tre, mi capitava di vedere per terra una foglia di ciliegio. Era il mio che mi mandava una lettera d’amore su cui c 'era scritto ti amo. Da allora, quando trovo una foglia di ciliegio, so chi me la manda e so cosa c'è scritto sopra. Anche se nel frattempo il mio ciliegio è stato tagliato e, come dice Federico Garcìa Lorca, io non sono più io e la mia casa non è più la mia casa.
La mia maestra era Suor Carla, che era stata la migliore amica di mia mamma quando erano state educande insieme in quel collegio. La sera passava vicino al mio letto e mi sfiorava lievemente la guancia con una carezza.
Venne aprile e mi chiamò:
"Ma tu non eri qui per ricuperare l'anno?"
"Assolutamente no."
Mi osservò attentamente poi disse:
"Non è vero. Adesso farai la quinta."
"Scusi, come faccio a fare la quinta in due mesi, quando ci ho messo due anni per fare la quarta?"
"Lo farai per amor mio."
"Per amor suo mi butto nel fuoco."
Mi mise a disposizione una stanzetta tutta per me e degli insegnanti privati. Agli esami la commissione esterna mi passò con la media dell'otto e mi fece le congratulazioni. L'anno era finito. Suor Carla mi chiamò in giardino.
"L'anno prossimo non puoi tornare." disse.
"Perché?"
"Perché hai idee rivoluzionarie."
Io le idee rivoluzionarie non le ho mai avute, ma tant'è. Piangevo. Mi sarebbe mancata la sua carezza la sera. Piangeva anche lei. Forse anche a lei sarebbe mancata una quasi figlia a cui sfiorare dolcemente una guancia prima di andare a dormire.

Tornai al Prati a Trento. L'inverno la mamma come al solito non c'era e io ero sempre sola in quella casa scassata, senza riscaldamento, senza cibo e senza soldi. Ero entrata a far parte di una squadretta di sci e la domenica facevo gare. Insieme a me correva anche il Gian Carlo. Era molto dolce e gentile. Mi sciolinava gli sci, mi faceva da allenatore e mi proteggeva. Visto che saliva apposta da Bologna dopo qualche tempo lo invitai a dormire da me. Avrebbe risparmiato i soldi dell'albergo e mi avrebbe fatto compagnia.
Una notte mi violentò.
Anni dopo suonò il campanello del mio appartamentino a Milano reggendo un plateau di un metro di diametro carico di mazzi di violette. Neanche avesse svaligiato tutti i fiorai della città.
"Sono venuto a chiederti scusa." disse.
Lo feci entrare e dopo un po' che parlavamo mi saltò di nuovo addosso e mi violentò di nuovo. Quando riuscii a liberarmi afferrai un coltello da cucina e mentre scappava glielo infilai nella schiena. Non così fondo da ammazzarlo, perché non volevo finire in galera per lui, ma fondo abbastanza perché gli fosse finalmente chiaro che il suo comportamento mio era sgradito.

D'estate mia zia Lumo mi invitava da lei. Con lo zio Franco avevano affittato l'ala di una grande villa in Brianza. Di giorno lavoravano, lei come psichiatra al manicomio di Mombello, lui come ingegnere alla Breda. Io passavo il tempo dipingendo i castagni della Moretta, o a leggere in cima a un grande cedro del Libano nel parco, oppure con le due marchesine, che avevano più o meno la mia età. Il loro padre era stato un'esploratore polare e una volta decisero di trascorrere una notte nella sua tenda, che fecero montare nel parco. Invitarono anche me. La cena ce la portò un maggiordomo in polpe su un vassoio d'argento. Poi il caldo si fece asfissiante, le zanzare ci divoravano vive e tornammo nei nostri letti. Questa è stata l'unica esperienza in tenda della mia vita.
Quando gli zii avevano le ferie giravamo l'Italia sulla loro Mercedes decappottabile detta Biancona, lui al volante, lei che leggeva ad alta voce il Baedecker, io sdraiata sul sedile posteriore sopra la capote ripiegata, nel vento. Correvano via boschi incantati, campagne piene di sole, castelli turriti, villaggi abbarbicati alle colline, vistammo cattedrali, e chiese, e musei, e affreschi, e mosaici. E il mare.
Grazie. Grazie davvero. Grazie infinite per esservi presa cura di me, per avermi insegnato tante cose, per tutto l’affetto che mi avete regalato.
Agli esami di maturità mi dettero tre esami da rifare.
A ottobre fui promossa e da allora è cominciato il mio vagare per il mondo, via dalla mia famiglia, via dall’Italia, via da tutto, come hanno fatto tanti miserabili bucanieri prima di me.
Perché, come ha detto Elon Musk, non importa che il razzo sia scoppiato, quanto ciò che quell'esplosione mi ha insegnato.